I nostri padri ritenevano che la qualità del vino, oltre che dalla qualità dell’uva, dovesse dipendere dalla botte in cui esso era conservato, pertanto bisognava averne molta cura. Esse dovevano essere tenute in luogo umido e fresco “u cәdderә”; quando erano molto grandi venivano costruite direttamente in cantina. Quando si svuotavano dal vino o dal mosto, esse non venivano lavate mai con acqua ma con lo stesso vino, erano fatte asciugare ben bene e le sostanze che si depositavano sulle pareti “u tàrtәarә”, il bitartrato di potassio, veniva spazzolato e tolto via attraverso il portello “u purtiddә” presente sulla base di una facciata. Per le botti più grandi si faceva entrare dentro qualche ragazzo più minuto che procedeva all’operazione. Dopo si procedeva alla solforazione “a ‘nzulәffuè” consistente nella bruciatura all’interno di una piccola quantità di zolfo che ne garantiva la prevenzione da batteri e funghi, tappando poi la botte ermeticamente. Se la botte non prendeva lo zolfo, vi era un attrezzo specifico, un piccolo braciere in cui si bruciava a zolletta di zolfo, con un tubo curvo che veniva inserito nel tappo. Per metafora nel nostro modo di dire si usa l’espressione “è stetә ‘nzulәffuète” per dire che qualcuno è stato influenzato forzatamente, ovvero plagiato psicologicamente.
LILLINO CALIA