Durante la notte tra il 4 e il 5 gennaio, dopo che pochi giorni prima il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero dell’Ambiente avevano dato il loro assenso, è stata pubblicata la CNAPI (Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee), una mappatura dei territori, considerati potenzialmente adeguati ad ospitare il Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi e l’annesso Parco Tecnologico. Di cosa si tratta? Il Deposito Nazionale viene definito come un’infrastruttura ambientale di superficie, utile a mettere in sicurezza i rifiuti radioattivi. Avrà una struttura molto simile a quella di una “matrioska” che alternerà barriere in cemento armato a barriere naturali: saranno realizzate 90 costruzioni in calcestruzzo armato dette celle, al cui interno saranno collocati grandi contenitori, sempre in calcestruzzo, detti moduli, al cui interno saranno posizionati i contenitori metallici con al loro interno i rifiuti radioattivi Il Deposito avrà una superficie di circa 110 ettari e consentirà lo stoccaggio definitivo di circa 78.000 metri cubi di rifiuti a bassa attività e stoccaggio temporaneo di circa 17.000 metri cubi di rifiuti a media e bassa attività (questi ultimi dovranno essere ospitati per massimo 50 anni, per poi essere definitivamente sistemati in un “deposito geologico di profondità”, del quale, al momento, non si sa nulla). A fine “lavoro”, il deposito sarà ricoperto con una collina artificiale e con un manto erboso. L’intento progettuale è quello di isolare le scorie per almeno 300 anni, in modo da permettere il loro decadimento fino a livelli tali da non essere più nocivi per l’uomo e per l’ambiente Altri 40 ettari annessi, saranno invece destinati al Parco Tecnologico: un vero e proprio centro di ricerca, aperto a collaborazioni internazionali, dove svolgere attività nel campo della gestione dei rifiuti radioattivi e dello sviluppo sostenibile del territorio interessato. L’obiettivo è quello di procedere al decommissioning, lo smantellamento delle centrali e dei siti nucleari costituiti. Detto che il decommisioning viene finanziato da tutti noi, tramite una voce apposita nella bolletta elettrica, per un ammontare di circa 130milioni di euro annui, è necessario fare un po’ di storia: l’era atomica in Italia è cominciata nel 1966, quando si avviò la costruzione di 3 centrali nucleari. Nel 1987 però, all’indomani dell’incidente di Chernobyl, un referendum popolare impose di rinunciare all’energia nucleare e, di conseguenza procedere al decommisioning delle centrali, che nel frattempo erano diventate 4. Non tutti i rifiuti inerenti questo deposito risalgono però a quello smantellamento, infatti, nel tempo in Italia, una quantità, anche minima di rifiuti radioattivi si continua a produrre nell’industria, nella medicina e nella ricerca, e queste scorie vengono custodite in una ventina di siti (i più vicini a noi si trovano a Statte, vicino Taranto, e a Rotondella, in provincia di Matera), in attesa di confluire a loro volta nel nuovo deposito nazionale. A partire dal novembre del 1999 il
decommissioning è affidato alla SOGIN, una società di stato, la stessa che ha individuato la CNAPI. Chi ha stabilito i criteri per stilare la CNAPI? Nel 2014, un altro ente pubblico, l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e per la Ricerca Ambientale) oggi diventato ISIN (Ispettorato nazionale per la SIcurezza Nucleare), accogliendo gli standard internazionali dettati dalla IAEA (International Atomic Energy Agency), ha stilato la Guida Tecnica n. 29, in cui sono stati individuati 15 criteri di esclusione e 13 criteri di approfondimento, per valutare le aree all’interno del territorio nazionale. I criteri seguivano diverse logiche: di natura geologica, di natura amministrativa, di convenienza e di buon senso. Ad esempio le prime aree da escludere erano quelle vulcaniche e quelle sismiche, poi quelle soggette a frane o inondazioni, quelle posizionate in fasce fluviali o in depositi alluvionali preistorici, in seguito le aree oltre i 700 metri di altitudine o con pendenza superiore al 10%, fino ad escludere quelle entro i 5 km. dalla costa, in zone carsiche o nei pressi di sorgenti o Parchi Nazionali o luoghi di interesse naturalistico. Altri criteri erano riferiti alle distanze dai centri abitati, dalle ferrovie, dalle strade statali o dalle autostrade (almeno 1 km.), dalle attività industriali, dalle dighe, dagli aeroporti, dai poligoni militari e dalle zone di sfruttamento minerario. Al termine di queste valutazioni, la SOGIN ha approntato la CNAPI che prevede 7 zone, a loro volta divise in 67 aree, divise, a seconda dell’appetibilità, in 4 classi: A1 (12 aree molto buone); A2 (11 aree buone); B (15 aree insulari); C (29 aree in zona sismica 2). La zona Murgiana comprende 6 aree in classe A2 (un’area a Gravina, due a cavallo tra Altamura e Matera, due a cavallo tra Matera e Laterza e una tutta in agro di Matera). Vicino a noi ci sono anche 11 aree in classe C, tutte in Basilicata (interessano i comuni di Montalbano, Bernalda, Montescaglioso, Acerenza, Oppido, Genzano e Irsina). Cosa prevede adesso l’iter? La pubblicazione della CNAPI avvia un periodo di consultazione pubblica, con gli enti locali interessati e con altri soggetti che nell’arco di due mesi potranno formulare le loro osservazioni e le loro proposte tecniche alla SOGIN. Seguiranno quattro mesi di “seminario nazionale” che nelle intenzioni dovrebbe essere un vero e proprio dibattito pubblico, con la partecipazione di Enti locali, associazioni di categoria, sindacati, università ed enti di ricerca, durante il quale si approfondiranno tutti gli aspetti, compresi gli eventuali benefici economici e di sviluppo territoriale connessi alla realizzazione delle opere. Al termine di questa fase, la SOGIN, entro tre mesi dovrà elaborare la Carta Nazionale delle Aree Idonee, per poi concludere l’iter con una fase di “manifestazioni di interesse che precederà il momento dell’individuazione del sito (secondo il Ministro Costa la procedura durerà complessivamente 44 settimane). Per la costruzione del deposito si stima un periodo di 4 anni.