Ne parliamo con il prof. Filippo Giordano ordinario di economia aziendale presso l’Università di Roma LUMSA. L’intervista è stata estrapolata da Radio Radicale che ringraziamo.
L’evasione dei sette ragazzi dal Cesare Beccaria fa più clamore mediatico e politico degli 82 suicidi in carcere nel 2022. Tu hai scritto questo tweet. Perchè viene fatta questa scelta?
Il mio tweet era provocatorio, ma rappresentava una realtà. Il rapporto tra il carcere e l’opinione pubblica è malato. La fuga viene vissuta storicamente come la sconfitta del carcere e quindi dello Stato. La fuga crea attenzione, evoca anche filmografie. Ma la fuga non è la vera sconfitta del carcere. La vera sconfitta è l’incapacità del nostro sistema di rimettere in libertà, alla fine della pena, persone migliori. Questo ci deve preoccupare. Parliamo della fuga di sette ragazzi che sono stati trattati dalle prime pagine dei giornali come grandissimi criminali. Non è fuggito un gruppo di trafficanti, ma ragazzi di 17 anni che stavano giocando. Non voglio minimizzare l’episodio, la fuga è l’episodio critico per eccellenza. Ma parliamo di 7 ragazzi che stanno vivendo un’esperienza penale, che sicuramente non li renderà migliori e dopo questo episodio, che può essere frutto di una gogliardata, di qualcosa che è nata in circostanze particolari, li peggiorerà nel loro percorso.
Lei è autore insieme a Carlo Salvato e a Edoardo Sangiovanni del libro “ Il carcere. Assetti istituzionali e organizzativi” con la prefazione dell’ex Ministra Marta Cartabia. Lei si occupa di economia aziendale. Come fa la materia che insegna a rientrare in questi temi?
Questo è un punto molto importante della ricerca, ma ce ne sono stati altri molto significativi. E’ un percorso di ricerca che ho iniziato nel 2015 studiando l’impatto del teatro e delle attività culturali in carcere. Il libro che ha citato invece è il primo libro che si scrive in Italia e a livello internazionale sul tema della gestione e organizzazione degli istituti di pena. La ricerca economica aziendale, nasce per rispondere ad una domanda: come mettere le organizzazioni nelle condizioni di perseguire meglio il proprio fine istituzionale. Quindi l’economia aziendale si occupa non solo delle imprese, ma anche delle pubbliche amministrazioni. Io sono uno studioso delle Pubblica Amministrazione e storicamente mi sono occupato di Enti Locali, Amministrazioni Centrali dello Stato mentre ci sono colleghi che si occupano di Università, di Sanità e altre tipologie di istituzioni pubbliche. Lo studio manageriale si pone questo obiettivo: capire quali sono i fattori che facilitano o ostacolano le capacità di queste organizzazioni di fare bene il loro lavoro nel loro ambito specifico di intervento. Gli ospedali devono curare, le Università devono formare laureati e immetterli nel mondo del lavoro, gli Enti Locali devono fornire servizi ai cittadini. Il carcere cosa deve fare? È stata la domanda di partenza del percorso di ricerca. La Costituzione ci dà la visione a cui l’esecuzione penale deve ispirarsi. La visione di un’organizzazione dal punto di vista del management definisce cosa l‘organizzazione ambisce ad essere nel lungo periodo. La visione che ci propone la Costituzione, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” ancor oggi è avanti rispetto alla cultura del nostro paese. Se l’istituzione carcere deve fare questo mestiere oggi, e non lo fa, c’è un problema di tipo organizzativo, c’è un problema legato alle competenze, ai valori e alla cultura delle persone che lavorano in quell’amministrazione. Un dato assolutamente interessante è che il 90% delle persone che lavorano nell’amministrazione penitenziaria porta la divisa, quindi è portatore di competenze e di professionalità orientate alla sicurezza. È chiaro che c’è uno sbilanciamento organizzativo che non mette strutturalmente quell’organizzazione in condizione di raggiungere l’obiettivo riabilitativo.
Ci sono altri elementi di criticità?
Altro elemento di criticità è il fatto che l’amministrazione penitenziaria italiana alloca pochi milioni di euro dei circa 3,2 miliardi di budget annuale a finanziare progetti e attività di rieducazione,. Quello delle risorse insufficienti è un altro elemento di criticità messo in luce dai commenti sulla vicenda del Beccaria. Tutto il tema della rieducazione dipende da iniziative esterne all’amministrazione penitenziaria e al Ministero della Giustizia. Su 12 educatori operanti nel Beccaria 9 sono finanziati da altri enti, 5 dal Comune di Milano e 4 dalla Regione Lombardia. Il tema delle responsabilità di chi si fa carico del processo educativo è lasciato nell’ambiguità. Questo affidarsi ad altri, alle iniziative del volontariato, dell’associazionismo, ha un valore enorme. Il contatto con l’esterno è fondamentale per la ripresa delle persone che si sono escluse dalla società commettendo reati. Ma le attività rieducazione sono strutturalmente precarie e temporanee. Al netto di poche realtà di volontariato puro, che in ogni caso non sono in grado esprimere grandi progettualità, se gli enti del terzo settore vedono i loro progetti finanziati da fondazioni e enti locali le attività in carcere si fanno, altrimenti si interrompono. Questi sono i veri problemi del carcere.
Cosa bisogna fare per migliorare le condizioni del carcere?
Penso che in Italia, senza ipocrisie si debba decidere che carcere si vuole. Se vogliamo un istituzione sociale orientata verso la rieducazione, bisogna fare investimenti e assumere personale adeguato a quel fine, altrimenti, lo dico provocatoriamente, modifichiamo l’art. 27 della Costituzione. Quando si parla di carenza di organici, si fa riferimento sempre alla mancanza poliziotti penitenziari, ne mancherebbero 18 mila. Ma cosa facciamo fare a questi poliziotti? C’è sempre un dibattito totalmente ideologico che non guarda alla realtà e alla sostanza di quella che deve essere un organizzazione che deve bilanciare sicurezza e rieducazione. Poi parli con operatori di polizia penitenziaria e la prima cosa che ti dicono è che per migliorare la qualità della vita e del lavoro all’interno delle carceri è fondamentale tenere le persone detenute impegnate e fare attività educative (lavoro, formazione, istruzione, arti ecc). Se si vuole più sicurezza, più disciplina, meno problemi psichiatrici e psicologici nelle carceri, c’è bisogno di riempire la giornata delle persone detenute con attività che le portino su un percorso di cambiamento. Non è un caso che il cappellano del Beccaria abbia denunciato l’inattività e l’ozio come elementi diseducativi del quel contesto in cui sono maturati gli eventi di fine dicembre
Michele Lospalluto