Cent’anni fa nasceva Rocco Scotellaro (Tricarico, 19 aprile 1923 – Portici, 15 dicembre 1953)
Poetica e rivolta di un poeta “anomalo” del Sud, morto trentenne nel 1953, il cui segno nella cultura meridionale è rimasto netto.
“Rocco vestito di perla / come il grigiore dei colli vicino al tuo paese / mostrami la via che conduce / non so dove.” Così Amelia Rosselli ricorda, dopo la morte prematura, l’amico del cuore Rocco Scotellaro (Tricarico 19 aprile 1923/ Portici 16 dicembre 1953).
A [cent’anni] dalla nascita e [settanta] dalla scomparsa dello scrittore, non viene conferito giusto rilievo alla sua produzione poetico-letteraria (e non solo), indebolita forse dagli ideali politici che gli hanno dato popolarità, al punto di far prevalere l’impegno sociale sull’opera poetica in sé.
Prima la presenza costante accanto alla sua gente e l’elezione in giovane età a sindaco del partito socialista del suo paese materano; poi il carcere, in seguito all’accusa di concussione da parte degli oppositori politici, per poi essere prosciolto con formula piena. A ciò si aggiunga la morte prematura a trent’anni.
Scotellaro è considerato il poeta più rappresentativo del neorealismo, lucido interprete di quelle stesse sollecitazioni che in ambiti come il cinema o la produzione romanzesca hanno dato esiti memorabili. Emblematiche le parole che Carlo Levi gli rivolge dopo aver letto parte del romanzo autobiografico L’uva puttanella: “Questo tuo libro supera il mio Cristo”.
Lo scrittore lucano spoglia la poesia di retorica e visioni oleografiche; restituisce la parola/suono a chi per secoli l’ha persa o mai posseduta; ridà voce a figure ritenute non meritevoli di poesia e tagliate fuori dalla storia, facendole parlare, ad esempio, nella poesia È fatto giorno, scelta da Carlo Levi per intitolare l’antologia uscita postuma nel ’54 e illustrata dal critico Franco Fortini come “la celebrazione di alcuni dei momenti più alti della vita collettiva di una classe che prende coscienza di sé e l’angoscia dell’inevitabile perdita dell’idillio”.
“È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi
con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.
Le lepri si sono ritirate e i galli cantano,
ritorna la faccia di mia madre al focolare.”
Sono versi che conferiscono diritto all’esserci ai braccianti meridionali, agli esclusi, agli analfabeti. Diritto a essere considerati, concedendo loro la parola. Il giuoco di cui parla Scotellaro è quello che i contadini hanno sempre subìto dalla classe dominante. Quel noi fatto di esclusi, di contadini incolti e schiavizzati dalla terra che lavorano ma non possiedono, ora decide di entrare nel giuoco per modificare le leggi ineguali. I braccianti non sono più oggetti passivi, ma soggetti della storia.
Scotellaro indica un metodo e un indirizzo politico-culturale sconosciuti a gran parte della popolazione meridionale che a metà degli anni cinquanta costituisce il nucleo fondamentale della classe lavoratrice, quei braccianti che Antonio Gramsci guarda come interpreti di un possibile riscatto, rivincita, alleanza con gli operai del Nord.
La letteratura e l’arte diventano non solo mezzo d’indagine della condizione umana, ma soprattutto eco dell’ansia di riscatto morale, civile e sociale del popolo.
Di estrazione contadina
Figlio di un calzolaio e di una sarta, porta a termine gli studi malgrado l’indigenza della famiglia: dopo aver frequentato il liceo classico nel salernitano, prima nel convento dei frati Cappuccini a Sicignano, poi a Cava de’ Tirreni, consegue la maturità a Trento. Qui, avvicinatosi agli ideali del socialismo, nel novembre ’40 sarà sospeso per aver aderito a una manifestazione antifascista. Nel triennio1940-43 scrive alcune poesie affini a quelle del poeta suo conterraneo Leonardo Sinisgalli, entrando così nel vivo dei dibattiti sul ruolo sociale del letterato e sul rapporto tra cultura e politica. Gli si aprono nuovi orizzonti: marxismo, psicoanalisi, esistenzialismo alla Sartre. Manifesta notevole interesse per la letteratura straniera; predilige gli autori russi ma non disdegna Eliot, Verlaine, Mallarmé, García Lorca, Rilke. Si avvicina alla poesia straniera grazie alle traduzioni pubblicate in Italia su riviste come Mercurio, Il Ponte, Lo Smeraldo. Su Società ha modo di leggere le poesie di Sergej Esenin, che cantano la Russia contadina. Traduce non solo classici greci e latini, ma anche versi di Rimbaud e Stevenson.
Eugenio Montale afferma: “Scotellaro fu come Sergej Esenin o Attila Jószef, due dei più raffinati artisti della moderna poesia europea. Rocco ha potuto lasciarci un centinaio di liriche che rimangono certo tra le più significative del nostro tempo. La voce di Scotellaro è una delle ultime illusioni di poesia funzionale, civile e consolatoria”. Il poeta lucano e il poeta russo hanno almeno due punti in comune: sono di estrazione contadina e individuano nella campagna il luogo della palingenesi della liberazione; inoltre conoscono l’esperienza carceraria. Disprezzano il sopruso, gridano giustizia e sognano rivoluzioni: Scotellaro non si rende conto che con l’elezione a sindaco deve occuparsi dei registri di stato civile e allontanarsi dai braccianti; Esenin sperimenta la rivoluzione ma non comprende che tutto si esaurisce nel ricambio della classe dirigente.
Del mondo contadino, lo scrittore tricaricese è sia protagonista per ceto, usanze, lingua e solidarietà, che spettatore per capacità espressiva. Abbandonata la carica di sindaco, sceglie studio, ricerca e scrittura quali armi per combattere la sua battaglia. Non è una resa ma una scelta consapevole di adoperare strumenti differenti ma non meno efficaci e impegnativi per tutelare i contadini e far comprendere all’opinione pubblica le loro difficoltà.
Convocato da Manlio Rossi Doria all’Osservatorio di economia agraria di Portici, in provincia di Napoli, prende parte alla stesura degli studi preliminari del Piano regionale della Basilicata, commissionato dalla Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) e cura la parte inerente ai problemi igienico-sanitari, all’analfabetismo e alla scuola.
Certo che “la cultura italiana sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso, colto nel suo formarsi e modificarsi presso il singolo protagonista”, inizia per Vito Laterza la stesura del libro-inchiesta Contadini del Sud che sfortunatamente non porta a termine per l’improvvisa morte e che sarà pubblicato postumo e incompleto nel ’54. Analizza dal punto di vista sociologico la realtà rurale attraverso storie di vita raccontate dai protagonisti, registrate e trascritte fedelmente, come la storia dell’anarchico Michele Mulieri (13 aprile 1904/11 maggio ’90), contadino e artigiano che nel ’50 innalzò, al bivio per Grassano (Matera), un tricolore listato a lutto e proclamò la ‘Repubblica dei Piani Sottani’.
Il sociologo Gilberto A. Marselli sottolinea in particolar modo la singolarità con cui Scotellaro relaziona la campagna alla città: “Rifiutava l’arroccamento su vecchie posizioni ruralistiche senza per questo idealizzare l’industrializzazione come pacifico superamento di ogni difficoltà e problema”.
Come un eroe greco
Secondo Pier Paolo Pasolini “lo stesso Rocco Scotellaro, che rinunciando allo sforzo mimetico – che l’avrebbe automaticamente portato alla paratassi, alla restituzione immediata del concreto-sensibile –, preferisce o annullarsi del tutto nel documento – il magnetofono su cui incidere nella loro assoluta fisicità le voci dei contadini: in un parlato dunque intero, non scelto nelle sue ‘punte’ espressive, e mimetizzato –, oppure riaffermarsi come osservatore appartenente alla classe alta: e in ciò adotta una prosa già pronta a tal fine, una prosetta leggera, capricciosa e divertita, che, attraverso Levi, recupera addirittura gli stilemi sinisgalliani”.
Carlo Levi proclama Scotellaro poeta-contadino, personaggio paradigmatico con propri simboli, miti, visione antropologica, folklore; fa di Rocco il nuovo messia del Sud e della poesia il quinto vangelo a uso dei contadini. Dispone personalmente il corteo funebre; le donne lucane col loro lamento accompagnano al cimitero il feretro. È come se fosse morto un eroe greco.
Nonostante l’intensa attività portata avanti, nel corso degli anni non mancano al poeta lucano momenti difficili e drammatici da affrontare e superare. Sradicato dalla sua terra, vive una profonda angoscia da emigrato; è smarrito e in perenne conflitto esistenziale per aver lasciato il paese natio; si sente quasi un traditore, tanto che definisce Napoli ‘città d’esilio’. È lo stesso stato d’animo che affiora in alcuni versi della poesia Il posto:
“E ora ti sei messo a posto
tieni il posto e mangi pane.
[…]
Ma tu che hai tradito patria e amore
sei punito e non trovi amore,
ma tavola pronta e mangi tonno.
piangi piangi cuore contento
finita è la fame, la sete e il sonno.”
Il malessere lo attanaglia: vive la partenza dal paese e l’abbandono della lotta politica come il peccato della propria vita. Si sente in colpa verso i contadini per aver ottenuto il posto fisso; teme di apparire distaccato e indifferente ai loro occhi.
In Scotellaro emerge anche il dato antropologico quale elemento strutturante della poesia; in essa si concretizza l’incontro/scontro tra i due codici culturali: quello egemone e quello subalterno. Gli esiti sono quelli di una funzione dinamica e propulsiva che fa della sua poetica qualcosa di forte e moderno. Oggi non si presta a Scotellaro l’attenzione che merita, forse perché lo spessore culturale della sua poetica è agli antipodi con la gestione culturale dei partiti politici che sembrano aver perso ogni valore ideologico, progettuale, esercitando solo un forte potere di lottizzazione lontano anni luce dalla concezione politica del poeta-contadino che senza alcun dubbio può definirsi gramsciano.
Fonte A Rivista Anarchica n. 385 dicembre-gennaio 2013-2014