Il rapporto ISTAT pubblicato nel 2018, è chiaro, il prossimo sarà pubblicato il 2022: sono 1 milione e 404 mila le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Colleghi e dirigenti che tentano di toccarle, chiedendo prestazioni sessuali, in cambio di lavoro più stabile, agevolazioni o promozioni. Hanno subito violenze di questo tipo l’8,9 per cento delle lavoratrici attuali o passate, incluse quelle in cerca di primo impiego, ma il dato è in forte aumento. Negli anni precedenti all’indagine 2013, 2016, erano 425 mila le vittime sui posti di lavoro. Sono le più istruite le più colpite e le donne tra i 25 e i 44 anni. I casi di intimidazione, di attacco alla dignità delle donne con offese e umiliazioni si verificano maggiormente nei centri superiori ai 50 mila abitanti e si ripetono per tre su dieci più di una volta la settimana. Sono pochissime le donne che ne parlano in azienda, quasi nessuna denuncia alle forze dell’ordine, pur sapendo che son reati gravi. Dai dati si evince che questa è la “normalità”. In gioco ci sono: perdita del posto di lavoro, il peggioramento della propria carriera. Spesso i dirigenti indicano anche quando devono rimanere incinte e quando trasgrediscono vengono penalizzate con il demansionamento. L’ILO (International Labour Organization), l’agenzia delle Nazioni Unite che promuove la giustizia sociale, nel suo primo articolo della convenzione sulla eliminazione delle molestie e delle violenze nel mondo del lavoro, da poco firmata anche dall’Italia recita: la violenza o le molestie sono un insieme di pratiche e comportamenti inattaccabili, ma lo è anche la minaccia di porle in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente. Rappresentano una minaccia alle pari opportunità e sono incompatibili con un lavoro dignitoso, sano e sicuro per tutti. Quest’anno sono state uccise 109 donne, una ogni tre giorni, secondo i dati dell’Osservatorio analisi criminale della polizia.
Altro dramma è la burocrazia nel nostro paese. Ci vuole un anno perché i fondi nazionali antiviolenza siano trasferiti dal Dipartimento per le Pari Opportunità alle Regioni e da queste alle case rifugio e ai centri antiviolenza. Certo in questi giorni, in occasione della giornata internazionale sulla violenza, le diverse istituzioni, come ogni anno faranno promesse di nuovi fondi e di superamento dei tempi per erogarli. Frattanto i tre milioni stanziati nel 2020, per tenere in vita le strutture antiviolenza, non sono mai arrivati, altri 10 milioni finanziati nel 2021, sono fermi alla Conferenza Stato-Regioni, che risale al 3 novembre scorso. Scomparso dall’agenda delle priorità anche il piano antiviolenza per il triennio 2021-2023. Dall’indagine emerge che in Italia poco o nulla viene destinato alla prevenzione e che si continua ad adottare un approccio emergenziale, mentre si tratta di un fenomeno strutturale e non si previene il fenomeno aggredendo le norme sociali che favoriscono comportamenti violenti, intervenendo tempestivamente per porre fine ai fenomeni di violenza. Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) non c’è riferimento alla violenza di genere, era previsto l’accesso al credito per la creazione di imprese da parte di donne vittime di abusi, insufficiente come copertura, ma successivamente è stato depennato. Per il reddito di libertà, stanziati due miliardi per garantire l’indipendenza delle vittime, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale nel luglio dello scorso anno, l’INPS solo a novembre di quest’anno ha dato l’autorizzazione per fare le domande. La burocrazia dà il colpo finale alle strutture di accoglienza, quando chiede dettagliate rendicontazioni, una polizza fidejussoria e documentazione varia, strutture che non sono dotate di personale amministrativo in grado di fornirle.
Michele Lospalluto